Scroll Top

Illeciti del terzo ai danni dei soci: sono risarcibili?

Illeciti

La questione oggetto di analisi è la valutazione degli illeciti del terzo ai danni dei soci di società di capitali e la legittimazione di questi ad agire per il risarcimento dei pregiudizi patiti a causa dell’illecito del terzo.

Per poter comprendere i termini del problema, è opportuno sottolineare che l’indirizzo giurisprudenziale prevalente incentra l’analisi sul principio di irrisarcibilità, nei confronti dei singoli soci, di quei danni c.d. “indiretti” o “riflessi”, ossia che risultino mera conseguenza dell’impoverimento del patrimonio patito dalla società per l’illecito del terzo.

Tale tipologia di danno può essere individuata e definita, attraverso il richiamo dell’articolo 2395 c.c., norma di chiusura della disciplina relativa alla responsabilità degli amministratori di S.p.a. e considerata applicazione dell’articolo 2043 c.c. (responsabilità per fatto illecito), nel caso di illeciti compiuti dagli amministratori, nell’esercizio di attività di gestione.

In tale disposizione, infatti, si riconosce solo ai soci o ai terzi che siano direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori la legittimazione ad agire per ottenere risarcimento.

Per “danno diretto”, peraltro, s’intende, in questo contesto, un pregiudizio arrecato dagli amministratori al patrimonio sociale del socio (o del terzo).

L’orientamento giurisprudenziale

La giurisprudenza è stata investita, in diverse occasioni, del compito di valutare la legittimazione del socio all’esperimento dell’azione di cui all’articolo 2395 c.c. e la possibilità per lo stesso di reagire all’illecito posto in essere da un terzo.

In particolare, essa è giunta sostenere che sia danno indiretto la riduzione del valore della partecipazione, in quanto effetto mediato del pregiudizio direttamente arrecato al patrimonio sociale: la partecipazione, pur attribuendo al socio una complessa posizione, comprensiva di diritti e poteri, rappresenta un bene distinto dal patrimonio sociale.

Con riferimento, poi, alle società quotate, il valore della partecipazione è influenzato da molteplici fattori, ulteriori rispetto alla variazione del patrimonio sociale, per cui non sussisterebbe un rapporto di diretta correlazione  tra variazioni di valore dell’una e dell’altro.

Nello specifico, è opportuno sottolineare come la Corte di Cassazione Civile, Sezione I, l’ 11.12.2013, con sentenza n. 27733, nel trattare la causa C.D. e C.L. c. Unicredit Banca S.p.a. e Banca Popolare di Cassinate S.p.a., abbia affermato che i soci di una società di capitali “non hanno titolo al risarcimento dei danni che costituiscano mero riflesso del pregiudizio arrecato da terzi alla società, atteso che la perfetta autonomia patrimoniale (inerente alla personalità giuridica della società) comporta la netta separazione tra il patrimonio sociale e quello personale dei soci. Ne conseguono l’esclusiva imputazione alla società stessa dell’attività svolta in suo nome e delle relative conseguenze patrimoniali passive, essendo la responsabilità del socio limitata al bene conferito e la legittimazione esclusiva della società ad essere risarcita dal terzo che con la propria condotta illecita abbia recato pregiudizio al patrimonio sociale” (cit.)

Gli effetti negativi sull’interesse economico del socio (riduzione di valore della quota e compromissione nella redditività dell’investimento), invece, costituiscono mero riflesso di detto pregiudizio e non conseguenza diretta e immediata dell’illecito (Cassazione n. 17938 del 2005; Sez. Un., n. 27346 del 2009).

Qualora fosse ritenuto ammissibile per i soci di una società di capitali agire per ottenere il risarcimento dei danni procurati da terzi alla società (in quanto incidenti sui diritti a questi derivanti dalla partecipazione sociale), si configurerebbe un’inutile duplicazione del risarcimento, in quanto riguarderebbe lo stesso danno.

Tra l’altro, è lo stesso sistema del diritto societario che impone di tener ben distinti i danni direttamente inferti al patrimonio del socio o del terzo da quelli che siano solo il riflesso dei danni patiti dalla società.

Dei primi si può lamentare solo il socio, mentre, dei secondi solo la società.

La Corte, la cui decisione è, qui, oggetto d’analisi, ha avuto occasione di affermare che l’ente pubblico che sia socio di una società di capitali ha azione diretta (in particolare, nei confronti degli amministratori sociali dinanzi al giudice contabile) per il risarcimento del danno all’immagine che può prodursi immediatamente in capo ad esso, per il fatto stesso di essere partecipe in una società in cui quei comportamenti illegittimi si sono manifestati e che non si identifica con il semplice pregiudizio riflesso, arrecato al patrimonio sociale, indipendentemente dall’essere o meno configurabile e risarcibile anche un autonomo e distinto danno all’immagine della stessa società, in quanto risulta essere un danno ulteriore.

Ciò dimostra che un danno non è dipendente o giuridicamente riflesso, per il solo fatto che uno analogo possa essere subito anche dalla società o, al massimo, da tutti i soci, occorrendo, invece, che costituisca esattamente una porzione di quello stesso danno subito dalla società e a questa risarcibile (l’integrazione del socio sarà solo indiretta).

La sentenza in commento è, altresì, degna di nota, in quanto sottolinea che il principio di irrisarcibilità nei confronti del singolo socio dei danni indiretti o riflessi cagionati da un terzo non risulti scalfito dall’articolo 2497 c.c. che, posto nell’ambito della disciplina dei gruppi societari, ha carattere eccezionale ed è volto a riconoscere ai singoli soci di società sottoposte a direzione e coordinamento la legittimazione ad agire per il ristoro di danni tipicamente riflessi (quali quello alla redditività e al valore della partecipazione) che siano stati cagionati dalla holding (la società capogruppo).

La Suprema Corte ammette, invece, la risarcibilità dei danni diretti, ossia quei pregiudizi che siano prodotti immediatamente nella sfera giuridico-patrimoniale del socio e non consistano nella mera ripercussione di un danno inferto alla società: si tratterebbe di danni patrimoniali o non patrimoniali che, indipendentemente dalla complessa posizione giuridica ricoperta dal socio all’interno della società, siano tali da determinare ripercussioni negative direttamente sul piano personale e patrimoniale del singolo.

La stessa giurisprudenza di legittimità, si è trovata, sempre durante la definizione della controversia sottopostale, a dover valutare, da un lato, la sussistenza di un pregiudizio cagionato dal creditore (nel caso di specie gli istituti bancari) e incidente direttamente sulla sfera giuridica dei garanti (i soci fideiussori) e, dall’altro, a esprimersi circa la natura dell’azione esperibile da questi ultimi.

Circa il primo profilo, la Corte ha riconosciuto che un danno sussista, poiché l’attivazione delle fideiussioni era seguito al dissesto societario, a sua volta causalmente riconducibile alle condotte illecite delle banche.

Quanto al secondo profilo, gli stessi giudici hanno evidenziato che il danno sia stato cagionato dalla condotta  tenuta dal creditore, in violazione non degli obblighi inerenti al suo rapporto con il fideiussore, ma di quelli nascenti dal contratto principale tra creditore e debitore principale.

L’obbligazione assunta dal fideiussore, così come prevista dall’art. 1936 c.c., è caratterizzata dalla sua accessorietà rispetto all’applicazione principale e, ai sensi dell’art. 1945 c.c., al fideiussore stesso è riconosciuta la possibilità di opporre al creditore tutte le azioni spettanti al creditore principale, con la sola esclusione di quella derivante dall’incapacità.

Ne consegue che al fideiussore è ravvisabile un danno risarcibile, ma di natura extracontrattuale (dato che la fideiussione nasce da un rapporto rispetto al quale è, per definizione, estraneo).

Conclusioni /strong>

Dalla giurisprudenza in commento, si evince come, nel nostro ordinamento, viga il principio di irrisarcibilità di tutti quei danni c.d. indiretti o riflessi che ricadano sul patrimonio personale del socio quale mera conseguenza di pregiudizi patiti dalla società.

Di contro, è risarcibile ogni altro danno, patrimoniale o non patrimoniale, che colpisca direttamente e personalmente il singolo socio.

In questa categoria rientrano, a detta della stessa Suprema Corte, i danni morali, psichici e alla vita di relazione patiti dai conviventi, nonché quelli patrimoniali (i.e. la perdita della capacità lavorativa, della carica di amministratore e l’impossibilità di intrattenere ulteriori rapporti con istituti di credito).

Con riferimento, invece, all’eventuale danno patito dal fideiussore, causa inadempimenti al contratto principale posti in essere dal creditore, l’orientamento della Cassazione è quello di valutare esistente una possibilità di risarcimento in via extracontrattuale (con tutto ciò che ne consegue circa il diverso termine di prescrizione ed il differente onere probatorio).

 

Fonte

Valentina De Campo, “Condotte illecite del terzo: i confini della tutela riconosciuta ai singoli soci”, in “Le società”, mensile di diritto e pratica commerciale societaria e fiscale, Ipsoa, 6/2014.